Sarà compito di sua madre indagare sul valore effettivo del gioiello, mentre Enoch si rifugerà nel sonno, nel sogno. Perché la libertà di sognare è ancora sacra e inviolabile. E non c’è legge umana che possa frenare la cavalcata notturna dell’inconscio. Non esiste norma che punisca gli eccessi deliranti d’una mente addormentata. Persino lo spaziotempo s’inchina al potere creatore della subcoscienza, si deforma, s’annebbia, s’annulla. Il corpo si sfalda e s’aggroviglia, s’aggrappa a ciò che più l’anima anela.
I sogni di Enoch sono neri. Neri come gli scarafaggi che ha visto rincasando o come quella blatta che si nasconde sotto il suo letto. Neri di rabbia, odio e disgusto. E sono rossi, come l’estasi, come la forza, come la vendetta, come il sangue che sgorga dalle membra straziate di Alex. Sogni a tinte fosche, accecanti nella loro assenza di luce. Eppure per Enoch sono tutt’altro che incubi. L’incubo, semmai, è il risveglio, la veglia, la vita d’ogni giorno.
L’incubo ha un suono: la sinfonia metallica di una catena che si trascina pesante dietro le caviglie gonfie del sadico castigo. Clang clang. È il ritmo stridulo di ogni passo di Enoch. Clang clang è la voce esasperante delle sue fredde gambe artificiali. Clang clang, infernale colonna sonora dei suoi tredici anni affetti da artrite idiopatica giovanile. Ma questa notte no, nessun clang clang si modula nell’aria mentre gli occhi serrati si perdono in territori inesplorati e la mente dipinge forme e scenari surreali ed inquietanti. Zampe palmate, squame e denti aguzzi. Coda possente, occhi gialli e narici ingorde. Istinto e odore. Enoch non avverte altro, non ragiona. L’unico pensiero è un’identità logica: odore uguale cibo. Nuota, striscia, avanza libero dal suo assordante clang clang, dal peso dei suoi arti ingombranti. Libero di seguire l’odore della sua preda, di stanarla, braccarla e divorarla con le fauci letali.
Clang, pliff. Il tutore ha toccato qualcosa di strano. Acqua. Come nella fantasia da cui è appena emerso. Pozzanghere di fanghiglia sparse sul pavimento, nel bagno, nel corridoio, lì accanto al letto. Odore di palude. Ma non può essere vero, è stato solo un sogno. E se Alex oggi non è seduto in classe, è solo per una coincidenza. “I sogni son desideri” e nulla più.
Un mistero sopravvissuto all’invidia rapace del tempo, un potere bestiale e divino che ha vagato per migliaia di chilometri e millenni, custodito all’interno di un ciondolo contaminato. Sobek è il suo nome: la divinità egizia della giustizia, il coccodrillo antropomorfo che divora i cuori grevi dei peccatori. La leggerezza di una piuma è il metro della sua implacabile bilancia. Psicostasia, ovvero “pesatura delle anime”. Sobek è tornato, richiamato al suo compito da un antico quanto oscuro rituale.
Lorenza Ghinelli, già finalista al Premio Strega 2012 con il romanzo “La colpa”, ha immaginato tutto questo. “Sogni di sangue” è un thriller forse non troppo convincente/coinvolgente, ma che può vantare una penna leggera e pulita, sicura e lucida. Centoventi pagine che si leggono in un clang clang.
Sara Calculli