Ma partiamo dall’inizio, partiamo da quella mattina in cui mi sono svegliata attanagliata dal pensiero-desiderio di scrivere. “È estate, è ufficialmente estate, è il tempo in cui c’è tempo per leggere”. Bene, niente di più facile: basterà qualche consiglio di lettura. Sì, basterà ch’io metta insieme quattro o cinque nomi da portare in spiaggia. No, decisamente no. Ogni lettore è diverso dall’altro, così come esistono numerosi e differenti “tipi da spiaggia”. Ok, perfetto, questo pizzico di fantasia è il tocco che renderà assolutamente sfizioso un articolo insipido. Chiaramente andrò a spulciare Benni, lui aveva abbozzato una tassonomia magistrale, divertente, pungente e, come sempre, più che realistica.
Tutto procedeva a gonfie vele insomma. L’idea c’era ed aveva preso una forma per niente male. Occorreva soltanto attingere l’Ispirazione Finale dall’enciclopedia benniana. Occorreva soltanto sfilare un volume dal ripiano più alto della libreria. Un volume tra i ventidue firmati dal Lupo… sì, ma quale? Dove ho letto quelle righe? Me le ricordo, ma dove le ho lette? Horror vacui, quel senso di vuoto con tanto di nausea ed ansia implacabili come prima di un esame. Una persona normale non si sarebbe fatta prendere dal panico, avrebbe riflettuto con calma, magari avrebbe digitato delle paroline magiche su un motore di ricerca e tutto si sarebbe risolto. Ma io non sono una persona normale, non quando si parla di libri, di libri di Benni, di citazioni dai libri di Benni. Il punto, per farla breve, è che certo avrei trovato una soluzione, ma questa dimenticanza, quest’incresciosa lacuna, quest’intollerabile mancanza, proprio non dovevano toccarmi.
Ne ho fatto una malattia, ho continuato a torturarmi per l’imperdonabile deficienza. Con il risultato che ho smesso di annaffiare la mia buona idea, che è morta lì, stecchita sotto il sole d’estate, ancor prima di prender vita su una pagina. Scongiurata la crisi, non restava che mettere il tutto nero su bianco. Ma quell’idea, ormai, era marcia, scaduta, troppi giorni di mare erano trascorsi e nel frattempo il cielo aveva deciso di vestirsi di grigio. Il tempo – in tutti i sensi – non sta dalla mia parte. Pazienza, sotto l’ombrellone consiglierei di portare un impermeabile piuttosto che un libro.
Ma forza e coraggio, c’è tanto altro di cui potrei parlare. Ma certo! È il periodo degli esami di maturità, non sarà difficile cogliere qualche input dalle tracce del tema d’italiano. Non posso crederci ora che lo scrivo, ma l’ho pensato davvero. Per fortuna una saggia vocina ha stroncato questo patetico ritorno all’adolescenza e il cervello ha ripreso coscienza. Sono appena iniziati i saldi, potrei rispolverare “Al Paradiso delle signore” di Zola. Oh, aspetta, e se invece mi concentrassi sui luoghi? D’estate cambiano le nostre destinazioni, si passeggia, si vivono di più le strade. Grandioso, Augé alla mano e sono pronta. E insomma, ogni giorno giù con una nuova pensata e nessuna che mi entusiasmasse davvero. Le scartavo una dopo l’altra come fossero caramelle dal dubbio gusto. La frustrazione incalzava e solo la lettura poteva liberarmi dall’asfissiante senso di noia.
Il volumetto se ne stava lì, elegante nel suo blu notte tempestato di lettere bianche come stelle, “Abbaiare stanca – Daniel Pennac”. Perché mi fosse sfuggito fino ad oggi proprio non lo so. La verità è che ho letto diversi libri sullo stesso tema e devo confessare che non li ho mai conclusi (tranne due). Per carità, non sempre perché fossero deludenti in sé. Uno, ad esempio, era scritto in caratteri estremamente minuscoli, praticamente illeggibili. Ad ogni modo, Pennac merita sempre e comunque un’opportunità. E su questo non ci piove.
“Abbaiare stanca” è un racconto per ragazzi, per educarli al rispetto del migliore amico dell’uomo, per aiutarli a comprendere la differenza fra padrone e amico, per capire qualcosa in più della psicologia canina. Naturalmente il protagonista è un cucciolo che affronta diverse disavventure e tra queste, purtroppo, anche la più tragica per un cane: l’abbandono.
È questo particolare a rendere “Abbaiare stanca” il soggetto del mio Elzeviro dell’estate. Le piaghe dell’abbandono e del randagismo, ahimè, sono argomenti più estivi dei consigli di lettura, di Benni, dei tanto attesi saldi, degli esami, delle passeggiate nei non-luoghi e di tutto il resto. E l’illuminazione è arrivata grazie a Pennac, alla sua penna straordinaria, alla sua capacità di conciliare un tema tanto delicato con uno stile semplice e deciso, con un romanzo appassionante e tutt’altro che pedante. Perché non servono i numeri, non contano le cifre e gli zeri, bensì le storie.
Ogni randagio ha la sua triste storia e la trascina con sé mentre si affanna a schivare la morte. Ne basta una sola per strappare una lacrima, perché ci si accorga che esiste un problema da affrontare con serietà ed impegno, che anche una sola vita in pericolo è un allarme da accogliere. Ad esempio, Il Cane – è questo il nome del nostro protagonista - è sopravvissuto per miracolo ad un annegamento. È stato gettato via perché troppo brutto, perciò non vendibile, quindi un peso. E non finisce qui: quando finalmente raggiunge la città dopo aver vissuto per mesi in una discarica ed aver visto morire la sua mamma adottiva, viene accalappiato e sbattuto nella cella di un canile. Dopo pochi giorni viene adottato, ma altrettanto velocemente sarà ripudiato, non sarà né più né meno di un giocattolo rotto. Rifiutato dalla sua cara piccola Mela, fuggirà e vagherà senza meta per le strade di Parigi, per poi ritornare lì dove il suo cuore era di casa. La felicità, però, si spegne presto, con l’arrivo di una nuova estate, di un viaggio, di una vacanza. Il Cane non raggiungerà mai l’amata spiaggia di Nizza, non rincorrerà i gabbiani assieme all’adorata Mela: i genitori della bambina lo abbandoneranno prima, pagheranno degli uomini per farlo sparire chissà dove, condannandolo a morte certa.
Ecco il punto: sfortunatamente il più delle volte è la vittima ad essere marchiata come Il Problema. Invece il problema è l’animale, quella bestia umana, che lo ha abbandonato. Ma torniamo alla nostra storia. Continuiamo a seguire le orme de Il Cane, perché il fato ha voluto per lui un lieto fine. Infatti, ormai è cresciuto, ha conosciuto i suoi simili e da essi ha appreso l’arte della sopravvivenza, il suo spirito e le sue zampe sono stati temprati dalla vita di strada: non solo sarà in grado di ritornare a casa, dopo undici giorni di cammino, ma organizzerà una vendetta coi fiocchi per coloro che lo hanno tradito. Costoro, però, erano già stati puniti: Mela, scoperta la verità, aveva iniziato lo sciopero della fame ed ormai nulla sembrava sufficiente a salvarla. Solo rivedendo Il Cane ritroverà la forza per ricominciare a vivere e i suoi genitori finalmente accoglieranno il “bastardo” per ciò che è sempre stato: un eroe.
La storia de Il Cane si ripete ogni estate, riecheggia nello stanco abbaiare della stirpe dei vagabondi. E ogni volta che ne incontro uno mi accorgo che non esiste parola che possa descriverne o tradurne degnamente lo sguardo, il guaito, l’ululato. Eppure Pennac, grazie alla sua esperienza e alla sua sensibilità, sembra esserci riuscito. Ogni riga dimostra con una forza e una dolcezza disarmante che anche (forse soprattutto) i cani sono saggi e nobili in quanto rispettano il loro linguaggio, le loro regole e gerarchie come un vero e proprio codice d’onore. Gli animali di proprietà, poi, hanno studiato a fondo il comportamento degli uomini sviluppando un elaborato sistema di suoni e gesti per comunicare efficacemente non solo le proprie emozioni ed esigenze, ma anche per guarire la nostra solitudine, il nostro incessante ed inesauribile bisogno d’affetto. Ci conoscono meglio di quanto possiamo immaginare, ci amano più di quanto è umanamente possibile credere. E quando si accorgono che siamo incapaci di comprenderli come loro sanno fare con noi, non si arrabbiano, si limitano ad abbaiare, stanchi.
Sara Calculli