È il mestiere più antico del mondo, lo strumento più efficace per dialogare, trasferire conoscenza ed esperienza, coinvolgere, persuadere, perché è la narrazione che permette all’uomo di capire appieno cosa ricorda, cosa pensa e cosa immagina. È quindi nell’atto stesso di creare storie che il soggetto narrante si definisce e costruisce. Portando questo discorso alle estreme conseguenze, la sopravvivenza dell’individuo è legata alla sua capacità di narrare e/o narrarsi. “Le Mille e una notte” (X sec. circa) e “La Ballata del vecchio marinaio” (1798) di Coleridge, seppur distanti nel tempo ed estremamente diversi per trama, lingua, forma e contesto culturale, sono in qualche modo accomunati dalla riflessione attorno a questa tematica.
Ne “Le Mille e una notte” lo storytelling è l’espediente grazie al quale la protagonista femminile riuscirà ad evitare una morte violenta per mano del sultano persiano Shahriyar. Questi, avendo scoperto che sua moglie lo tradiva, decise di condannarla a morte assieme al suo amante. Ma la sua ira non si placò con vendetta. Il suo cuore si era fatto più duro del marmo. Non riusciva più ad amare, anzi odiava a tal punto il genere femminile da uccidere, dopo la prima notte di nozze, ogni donna che sposava. Solo una sfuggirà alla furia cieca del sultano ferito e porrà fine all’eccidio: la bella ed astuta Sharazad. La figlia del gran visir si propose in moglie al sultano e per mezzo di un ingegnoso stratagemma si salverà e farà persino innamorare Shahriyar liberandolo dal suo odio verso il genere femminile (o umano?): ogni sera Sharazad racconta una storia al suo compagno, lasciando, però, il finale in sospeso fino alla notte successiva. In tal modo la sua condanna a morte è rimandata giorno dopo giorno, per Mille e una notte. Un tempo che non è solo un numero, è il tempo del racconto, il tempo della salvezza e della vita.
Il vecchio marinaio viaggiava assieme al suo equipaggio verso l’Antartide. La nave, intrappolata tra i ghiacciai, è colpita da una feroce tempesta che mette a rischio la spedizione. La sorte della ciurma migliora grazie ad un albatros: il suo arrivo porta una brezza favorevole che consente alla nave di svincolarsi dalla fredda morsa del ghiaccio. Inaspettatamente ed inspiegabilmente il vecchio marinaio uccide, con grande disappunto della compagnia, la bestia benevola portatrice di ottimi presagi. Il vecchio marinaio porterà al collo la vittima della sua insensata avventatezza. Non basterà tuttavia questa condanna a salvarlo. Una nave fantasma all’orizzonte porta con sé il destino della spedizione: “Morte” e “Vita-in-Morte” giocano a dadi con le vite degli sfortunati avventurieri del mare. La Morte vincerà, ma la Vita in Morte si prenderà il vecchio marinaio. Unico sopravvissuto, continuerà a navigare sfidando le intemperie ed incontrando le più incredibili e terrificanti creature degli abissi. E tuttavia imparerà ad amarle perché creature di Dio e da questi sarà perdonato. Privato del suo vergognoso fardello, dovrà però diffondere la sua triste ma edificante storia. È in questo che consiste ora la sua vita: vagare per il mondo e raccontare, ipnotizzando il suo uditorio perché nulla sfugga alla sua attenzione e memoria. È solo per tale ragione che la “Vita-in-Morte” lo ha risparmiato.
Ecco allora che il narratore non è affatto più importante dell’ascoltatore o del lettore, anzi è da quest’ultimo che dipende la sua sopravvivenza. Mi viene in mente la scena finale del film “Big Fish” (Tim Burton 2003, ispirato all’omonimo romanzo di Daniel Wallace). Il protagonista è ricoverato in ospedale ed è cosciente che la morte non tarderà ad arrivare. Lo assiste suo figlio che, pur non avendo particolare stima di lui, decide di regalargli l’estremo attimo di gioia, ovvero di raccontargli un’ultima storia. Suo padre, infatti, aveva sempre vissuto di racconti. Vere e proprie bugie, talvolta solo fantasiose rielaborazioni personali di episodi davvero accaduti. Tuttavia la sua arte non era affatto apprezzata dal figlio, il quale avrebbe voluto conoscere tutta la verità su suo padre. Una verità alla quale rinuncia nel momento in cui è al capezzale di quell’uomo che sempre aveva cercato di rendere la sua vita più straordinaria di quanto non fosse stata. Ma non per gli altri, bensì per se stesso. Ed è così che arriva il perdono, quando si scopre che ogni fantasticheria non era rivolta agli altri, non era un’offesa o un eccesso di vanagloria, ma un semplice tentativo per rendersi migliore ai propri occhi. Per quanto raccontasse ad altri, la sua narrazione era autorefenziale. Non per questo è stata meno efficace: suo figlio ne ha colto l’eredità. La sua storia è stata riscritta, da lui e poi dal suo interlocutore privilegiato, per chiudersi in un doppio lieto fine, un duplice ricongiungimento: nella vita reale col figlio e nell’universo parallelo dell’immaginazione con le creature della sua incredibile inventiva.
Insomma, raccontare non basta: bisogna saperlo fare. Perché solo un buon racconto è un bell’incontro. E solo quando tale incontro si realizza il racconto ha raggiunto il suo scopo: (ri)costruire un rapporto che neanche la morte saprebbe demolire.
Sara Calculli