Giovedì, 28 Settembre 2023

“La lira di Narciso”, un mito (non) dimenticato

Ho conosciuto il brano “La lira di Narciso” (dall’album “Bianco sporco”, 2005) dei Marlene Kunzt al liceo, nel corso di un approfondimento pomeridiano sulla Commedia dantesca.

All’epoca la professoressa me ne presentò solo le prime due strofe ed io, essendo avvezza ad altri generi musicali, non mi presi la briga di ascoltare l’intera canzone. Sciagurati diciassette anni.

Qualche giorno fa, navigando sul vasto e profondo mare del web, mi sono imbattuta (quasi) casualmente in questo meraviglioso pezzo e finalmente mi sono decisa a consultarne il testo. E così ho letto queste righe, le ultime, di pura e “mitica” poesia:

 

Ed ora, qui,

nessun profumo sa di te.

Non ci sei più.

Nell'acqua ciò che è intorno a me

si specchia con me

riflesso in un'immagine

che si anima di quello che anima me.

 

Resterò qui

un anno, un altro... e quanti più...

specchiandomi

ovunque dove eri tu.

 

Il riferimento al personaggio di Narciso era ed è lampante sin dalle prime note, nonché da titolo. Ma quando compare la “ninfea di bianco fascino” le cose si complicano. Sta lì, “bella e fragile”, in quelle acque in cui il bel Narciso si specchia perduto nella contemplazione della sua solitudine, e lo irretisce in un dolce e delicato gioco della seduzione. E poi svanirà, improvvisamente e sommessamente così com’era apparsa, lasciando al suo innamorato solo un’immagine piena di sé. Nostalgia e senso d’infinita vacuità nella quale Narciso continuerà a specchiarsi nella vana ricerca di un fuggevole attimo di felicità.

Una sensazione straordinaria e banale al tempo stesso: chiunque abbia vissuto d’assenze non vi troverà nulla di eccezionale, ma se si pensa al ritratto che la mitologia greca e romana ci hanno lasciato di Narciso, beh, c’è davvero qualcosa di meraviglioso in questa rivisitazione dei Marlene.

La versione ellenica di Conone e Partenio ha voluto che Narciso fosse punito dagli dei per la sua incurabile superbia. Di una bellezza rara ed incomparabile, il giovane rifiutava ogni pretendente e, per estensione, Eros, cioè l’amore stesso. Tra i suoi ammiratori Aminia non si diede per vinto e continuò a corteggiarlo finché l’amato gli regalò una spada affinché si togliesse la vita. Uccidendo le sue speranze, lo istigò al suicidio. Aminia infatti gli obbedì ciecamente, come ciecamente aveva amato quella splendida creatura senza scrupoli né sentimenti, ma nel trafiggersi il cuore doppiamente ferito invocò la vendetta divina. La preghiera disperata di quel cuore infranto fu accolta dagli dei e Narciso fu punito per la sua crudele alterigia: specchiandosi in una fonte, s’innamorò perdutamente dell’immagine riflessa e, colto dalla frustrante angoscia dell’essersi invaghito di se stesso, si pentì e si uccise con la stessa spada che aveva toccato mortalmente il suo amante. Dal suo sangue sbocciò un fiore: un narciso.

La variante sicuramente più nota è però quella di Ovidio, il quale, con l’intento di aumentare il pathos della precedente, narra che il destino di Narciso era in realtà già scritto. Infatti l’indovino tebano Tiresia aveva avvertito la madre dell’incantevole giovane che il figlio avrebbe raggiunto una veneranda età solo se non avesse mai conosciuto se stesso. L’enigmatica profezia del cieco veggente si sarebbe compiuta nel suo sedicesimo anno di vita, quando Nemesi decise di porre fine all’incredibile arroganza di Narciso, che aveva brutalmente respinto la ninfa Eco spezzandole il cuore. E così mentre la sfortunata Eco continuava a ripetere senza tregua i propri lamenti struggenti, Narciso, dissetandosi presso una fonte, vide il riflesso della propria maestosa bellezza e conobbe se stesso. Fu la disperazione devastante a straziare il fiore dei suoi anni. Quando le Naiadi e le Driadi giunsero nel bosco per recuperare il corpo vi trovarono un fiore cui diedero il suo nome. Ovidio aggiunge anche che la vanità di Narciso sopravvisse alla sua esperienza terrena: attraversando lo Stige nell’Otretomba, avrebbe ancora una volta tentato di ammirare il proprio riflesso nelle acque del fiume infernale.

Narciso sarebbe stato dunque oltremodo tronfio ed insensibile. È difficile pensare che avrebbe potuto degnare della sua attenzione una “ninfea” e persino ricercarla dopo la sua prematura scomparsa. Difficile, ma non impossibile: un altro adattamento, assolutamente poco famoso, potrebbe rendere verosimile l’incredibile. Pausania il Periegeta, scrittore e geografo greco vissuto probabilmente tra il 110 e il 180 d.C., revisionò il mito in quanto credeva eccessivamente sciocco che qualcuno non potesse riconoscere il proprio riflesso. In più aveva notato che l’omonimo fiore già compariva nei versi di un poeta vissuto molti prima, secondo il quale quando Ade rapì Persefone costei stava raccogliendo proprio dei narcisi. L’attento Pausania ipotizzò allora che Narciso avesse una gemella di altrettanta bellezza della quale, sfortunatamente, s’innamorò. Morta la sorella, il fratello-amante avrebbe trovato conforto specchiandosi in una fonte: nel suo volto riflesso rivedeva l’anelata fisionomia del suo unico e splendido amore.

È questo il Narciso che voglio ricordare. E forse è il più triste ed affranto fra tutti, quello che più degli altri è stato punito, ma buono ed estremamente romantico. In un’epoca che fa della vanità il suo vessillo, nell’era dell’immagine e dell’apparenza, di Narcisi ovidiani ce ne sono anche troppi. E allora almeno nelle “favole” mi piace trovare il principe azzurro, bello ed umile, che guardando se stesso non vede altro che la sua principessa. Lasciatemi pensare che il dolce ed avvenente Narciso stesse lì alla fonte a cantare:

 

Ed ora, qui,

nessun profumo sa di te.

Non ci sei più.

Nell'acqua ciò che è intorno a me

si specchia con me

riflesso in un'immagine

che si anima di quello che anima me.

 

Resterò qui

un anno, un altro... e quanti più...

specchiandomi

ovunque dove eri tu.

 

Sara Calculli

 

 

 

 

 

 

 

Read 2932 times Last modified on Giovedì, 07 Luglio 2016 09:49
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