interlocutore, Sant’Agostino, chiamerà accidia: “[…] mentre in tutte quante le passioni da cui sono oppresso è commisto un che di dolcezza, sia pur falsa, in questa tristezza invece tutto è aspro, doloroso e orrendo; e c’è aperta sempre la via alla disperazione e a tutto ciò che sospinge le animeinfelici alla rovina. Aggiungi che delle altre passioni soffro tanto frequenti quanto brevi e momentanei gli assalti; questo male invece mi prende talvolta così tenacemente, da tormentarmi nelle sue strette giorno e notte; e allora la mia giornata non ha più per me luce né vita, ma è comenotte d’inferno e acerbissima morte. E tanto di lagrime e di dolori mi pasco con non so quale atra voluttà, che a malincuore (e questo si può ben dire il supremo colmo delle miserie!) me ne stacco.” La sensibilità di Petrarca ha come sempre precorso i tempi. Quasi seicento anni dopo, quando la
mentalità positivista e la società di massa, il nazionalismo e la cultura della guerra avranno rinnegato il valore di arte e letteratura, gli intellettuali, alienati e amareggiati, vittimisti e abulici, faranno del proprio senso di inadeguatezza la virtù dei propri eroi, rovesciando la tradizionale visione apocalittica dell’accidia: l’impotenza si rivelerà uno “stato di grazia”, una condizione privilegiata pari alla cecità di Tiresia, lo strumento conoscitivo necessario per esplorare se stessi e la realtà. In un mondo laico che celebra il ritmo e il timbro dell’industria, lentamente l’accidia acquista la fisionomia del bovarismo, atteggiamento psicologico che deve il suo nome alla protagonista del più illustre e discusso romanzo di Flaubert, Madame Bovary, apparso nel 1857: la vita reale perde ogni attrattiva e l’individuo sceglie di evadere nella propria fantasia rifugiandosi in una realtà
idilliaca in cui realizzare se stesso e le proprie aspirazioni attraverso un’identità fittizia. Emma, proveniente dalla campagna, disprezza sdegnosamente la banalità della vita comune. Del resto, essendo cresciuta in convento, ha conosciuto il mondo fiabesco celebrato dalla letteratura cavalleresca. La sua immaginazione si è nutrita così di sogni fantastici che l’attirano verso il lussurioso e frivolo ambiente aristocratico. Il senso di reclusione e di noia accresce la sua indolenza e depravazione (è la società stessa, in primis i pregiudizi sulle donne nel XIX secolo, ad impedirle di affrancarsi): rinnega le proprie origini sposando un medico, Charles Bovary, sinceramente innamorato di lei e tuttavia estraneo alle sue aspirazioni. Emma cercherà quindi la felicità fuori dal matrimonio entrando in una spirale incontrollabile di eccessi che culminerà con il suo atroce suicidio. Questa sognatrice debole e velleitaria, mai sazia di avventure e ricchezze, è l’emblema dell’inadattabilità sociale, dell’ “insufficienza della vita e della sete di assoluto” (il “male del
secolo” che già Leopardi aveva scoperto), dell’insoddisfazione di sé e dell’impossibilità di riscattarsi che apre le porte all’avvento dell’antieroe moderno. Passando per la “Waste Land” eliotiana e dai “Dubliners” di Joyce, il trionfo arriverà con Svevo. I personaggi dei suoi primi due romanzi, vinti dalla propria inferiorità e incompetenza, preferiranno costruirsi una realtà alternativa nella propria follia e solitudine. Ma se Alfonso sarà affetto da una sorta di bovarismo ed Emilio si rifugerà in una Senilità precoce e forzata, finalmente Zeno accetterà stoicamente, con ironia e coscienza, il proprio disagio esistenziale e farà dell’inettitudine un marchio di superiorità: “Solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi.” E l’accidia, come un bruco che si è fatto farfalla, non sarà più un peccato capitale, ma una virtù da vantare con orgoglio.
Sara Calculli