Curioso, addirittura buffo: il termine greco che designava la maschera era “prosopon” da cui, per una serie di vicissitudini fonetiche e fantasiose interferenze con la civiltà etrusca*, è derivato il sostantivo latino “persona”. Entrambi i lemmi indicavano le maschere, in particolare si riferivano a quelle impiegate per coprire il volto o lo sguardo nel teatro o in rituali di varia natura, e solo in un secondo momento passarono ad identificare le persone grammaticali o quelle della Trinità.
Ebbene, da un punto di vista linguistico, “maschera” e “persona” vengono a sovrapporsi, confondersi e infine scambiarsi irreversibilmente.
È quello che accadeva nel teatro antico e, ancor più, nella Commedia dell’arte cinquecentesca: gli attori erano mascherati perché i personaggi rappresentati risultassero immediatamente riconoscibili. Si trattava infatti di “tipi fissi” e collaudati, spesso allegorie personificate, che tornavano uguali a se stessi in più spettacoli, al punto che generalmente un attore vestiva i panni di uno stesso personaggio per tutta la vita. Con il risultato che l’imitato e l’imitazione si identificavano l’uno nell’altra e viceversa. Esempio eclatante è quello del personaggio incarnato da Isabella Andreini che, nel XVI sec., prese il nome di battesimo di colei che lo impersonava.
Ma morto un Arlecchino, se ne fa un altro. Nella sua staticità, la “maschera” è destinata a risorgere ogni volta che un bambino, un attore o un matto ne indosserà le vesti. In un illuminante scambio di battute della commedia pirandelliana “Sei personaggi in cerca d’autore”, il padre spiega al capocomico che “Un personaggio può sempre domandare a un uomo chi è. Perché un personaggio ha veramente una vita sua, segnata di caratteri suoi, per cui è sempre «qualcuno». Mentre un uomo, così in generale, può non esser «nessuno»”. Vale a dire che contrariamente ai “figli” concepiti dall’ingegno e dalla creatività dell’artista, la cui sorte è quella di (ri)vivere ab aeterno le vicende che l’autore ha ideato per loro, gli individui in carne ed ossa sono personaggi multiformi e dinamici, in balìa del proprio corredo genetico e del fato, nonché della cultura e della società in cui sono immersi. Ed è appunto sul prosopon che Natura e cultura si intrecciano: la fisionomia del volto non è immutabile e, mentre il tempo e la genetica fanno il loro corso, l’esperienza fa il resto. Sul viso restano impressi dei veri e propri segni, naturali e culturali, che ci rendono “leggibili”, vulnerabili allo sguardo e al giudizio altrui. Certo, possiamo camuffare il tutto (e oggi, tra i miracoli della chirurgia estetica, i prodigi del fotoritocco e l’efficiente restauro fisico-chimico di creme e trucchi non è poi così difficile…). Tutto ciò che è superficie naturalmente, accatastando maschere su maschere perché quello che sta dietro, sotto o dentro resti invisibile, ignoto. Del resto, come afferma Jung, la persona non è che la maschera che l’individuo indossa nella società.
E, ancora una volta, Pirandello docet: tutta la sua opera e la sua poetica ruotano attorno a quest’unico perno. La vita assume una dimensione interamente e prettamente teatrale, in un continuo oscillare tra apparenza e realtà. È una commedia in cui ognuno di noi è al contempo uno, nessuno e centomila, ha molteplici ruoli estremamente variabili – ciascuno corrispondente ad una precisa maschera – dettati dal “pubblico” e dal contesto in cui si trova. Al punto che siamo noi stessi esclusivamente quando siamo completamente soli. Pirandello decostruisce pazientemente i suoi personaggi al fine di mostrare tutte le sfaccettature di una personalità. Mi viene in mente la novella “La carriola”, il cui protagonista, un irreprensibile avvocato, amabile marito e padre di famiglia, sentendosi intrappolato in un’identità che non sente più sua, cerca una via di fuga assai stravagante: gioca con la sua cagnolina sollevandole le zampe posteriori e portandola a spasso per il suo studio a mo’ di carriola. Un semplice ed innocuo passatempo di cui unicamente lui e il suo giocattolo sono a conoscenza. Un piccolo segreto che potrebbe tuttavia compromettere la sua posizione e cambiare radicalmente le opinioni degli altri su di lui. E così la sua intera esistenza. La “maschera” funge allora da meccanismo di difesa, come fosse un sipario che si apre e chiude al momento giusto facendo passare inosservato il sottile confine fra finzione e verità. In qualche modo la maschera è perciò connaturata all’uomo e persona e prosopon sono l’una lo specchio dell’altra. E l’effetto più paradossale di questo circolo vizioso è che “ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero” (Oscar Wilde).
Sara Calculli
* “Prosopon” venne inizialmente tradotto, probabilmente a causa di un’etimologia popolare, come “presonare”, ovvero “suonare attraverso”. Una seconda ipotesi è che il termine “persona” derivi dal diminutivo, ottenuto mediante l’aggiunta del suffisso –na, del nome della grottesca divinità infernale etrusca, Phersu.