Anche se occorre considerare che nella zona della Rabatana ci sono diversi altri siti di fabbricazione di tegole, mattoni e altri manufatti simili, e che il reperimento dell’argilla è da sempre agevole e non lontano dall’ex convento. Data la sua ubicazione, si potrebbe asserire che servisse ai monaci per la costante e ordinaria manutenzione. Oppure, che sia stata (ri)edificata per provvedere ai lavori di ristrutturazione alla fine dell’Ottocento, prima della definitiva chiusura disposta dopo alterne vicende (di abbandoni e riaperture) da mons. Giovanni Pulvirenti nel 1914.
I resti dell’ex convento di San Francesco, assieme alla più antica e nota Rabatana, segnano la memoria di ogni visitatore di Tursi. Il plesso conventuale è un magnifico esemplare di architettura religiosa, a pianta regolare di circa 50 metri di lato, che si sviluppa attorno ad un chiostro centrale, anch’esso quadrato, circoscritto sia al piano terra che al primo piano da un lungo corridoio perimetrale, mentre il campanile di chiaro riferimento orientale si eleva su una forma ottagonale che sovrasta la base quadrangolare. Ma all’impianto architettonico originario si sono sovrapposti diversi interventi di completamento (fine 1600) e parziali rimaneggiamenti successivi (si racconta di un terremoto del 1857, che avrebbe causato danni rilevanti, poi restaurati dalla Mensa Vescovile di Tursi, con i lavori diretti dal maestro muratore Emanuele Vozzi).
Il Convento. Quanto alle origini dell’ex convento di san Francesco, una bolla in latino del 1441 di papa Eugenio IV, non risolve i dubbi (se sia “autorizzativa” o piuttosto “confermativa”), perché è di tutta evidenza l’esistenza pregressa almeno di una parte del plesso conventuale. All’interno dell’annessa chiesa, tra l’altro, durante i lavori di messa in sicurezza e recupero, dietro un altarino abbattuto è stato scoperto un affresco colorato con la scritta “A.D. 1377”. Costruito su sollecitazione del vescovo tursitano Giacomo Casciano, sostenuto da tal conte Niccola e dagli abitanti, il convento ha ospitato costantemente una ventina di frati ed è stato per secoli un rilevante centro culturale per gli studi di filosofia e teologia e per la formazione di allievi, novizi e studenti, oltre ad avere una enorme biblioteca interna che fu bruciata dai francesi, durante la loro occupazione del presidio monastico, dal 1807 al 1818. La rilevanza è attestata dagli esperti studiosi che indicano il sito religioso, assieme a quelli di Venosa, Atella e Miglionico, tra i primi e più importanti del territorio lucano (nella provincia monastica di Puglia fino al 1517, quando fu istituita quella di Basilicata e il centro fu visitato nel 1519 da padre Francesco Lichetto, Ministro Generale dell’Ordine dei Minori). Ma la chiesa laterale e lo spazio antistante sono stati utilizzati fino al 1894 anche come sede cimiteriale delle famiglie nobili del tempo. Ed è stato oggetto di durature profanazioni, vandalismi e saccheggi, di cui scrisse anche l’illustre poeta tursitano Albino Pierro. Fino agli ani Sessanta del Novecento, mons. don Salvatore Tarsia, il prevosto della chiesa di Santa Maria Maggiore nella Rabatana, ha continuato a celebrarci saltuarie funzioni religiose per la festa di Sant’Antonio. Nel 1991 la dichiarazione ministeriale di “interesse nazionale”.