Mancavano solo Ricky Cunningham e le cameriere, quelle dai collettoni bianchi su camicie blu e dal seno prominente. Dai rossetti rossi, laccati, lucidi, quelli che - per intenderci - facevano annebbiare neuroni ed ormoni ad adolescenti già scombussolati di loro. Per il resto c’era tutto: i divanetti a righe orizzontali bianche e celesti, il bar con i milkshake e gli hamburger a mille piani.
Ma ci pioveva dentro. Sulle piste dovevi scansare le pozzanghere.
C’era il ristorante, al piano di sopra, per i genitori dei teenager dal birillo facile che, agli occhi, alle tasche - per la verità - dei proprietari doveva far batter cassa.
Al piano di sopra c’erano i tavoli, quelli seri. Era lì si facevano le feste, le presentazioni dei libri. Il mondo degli adulti. Sopra, coi tacchi. Sotto, con le sneakers. Sopra, la musica classica; sotto, l'hip hop. Ma anche pop, rock, i lenti... Le serate, passate tra latino americani e discoteca, dopo una certa. E i ragazzi, che entravano solo se in pari numero rispetto alle ragazze.
Dentro continuava a piovere. Sulle piste, tante e ingestibili erano diventate le pozzanghere. Si giocava lo stesso, ad oltranza. Pioveva, ma le partite continuavi a fartele.
Finché le piste iniziarono a scarseggiare. E giù a chiudere la sei, poi la cinque, in un progressivo stillicidio di scarpette: meno paia per sempre meno avventori. E sì perché ne erano rimaste poi tre, poi due, di piste, su cui far scivolare quelle sfere pesanti e numerate chiamate a sterminar birilli.
Dentro continuava a piovere. Non si poteva giocare più. A meno che non volessi scivolare tu, dietro ai birilli. O fratturarti un femore, fracassarti il naso, frontalmente, dietro la palla, contro i birilli.
Li chiamano “cimiteri industriali”, in America. E sono quelle strutture (gli ex drive in, per esempio), quegli edifici un tempo "ruggenti" e poi ridotti al silenzio. Al silenzio cimiteriale dell’inattività, tipica di una società non più pronta ad accoglierle, per l’incedere di nuovi, futili bisogni; per l’avanzare di tecnologie sempre più al passo coi tempi.
Il bowling di Metaponto non è - oggi - nient’altro che questo: la carcassa di un leone che non ha più trovato la forza di reagire. E che di inedia, rantolando, è morto. Nel silenzio della folla, nella vorace indifferenza di un bulimico consumismo che fagocita per poi sputare quei bisogni, dapprima identificati quali necessità.
Passi, sulla ss106 e quasi quasi ti fa pure pena. Lo osservi, lo senti quasi rantolare. Lo ricordi quando, ai tempi, inviava raggi in ogni dove, per richiamare la tua attenzione. E quando non c’erano i segnali luminosi, li affidava alla musica, i suoi richiami.
“Touch Down”, si chiamava così. Era il 2002 quando irruppe in una Metaponto abituata a vivere solo di sabbia e ombrelloni. Solo d’estate, solo per molti, i turisti, per pochi mesi.
“E d’inverno, a Metaponto, che fate di solito?”
Beh, da quel momento iniziavi a farti invidiare dal circondario perché a Metaponto c’era il bowling.
“Invece voi... voi ce l’avete, il bowling?”
I primi appuntamenti, le prime uscite, freschi di patente, su una temutissima e pericolosissima ss 106.
Poi il silenzio. Il silenzio dell’acqua, che per Metaponto è stata sempre - oggettivamente - un problema.
Capita, a volte, che quel che esce dalla porta, rientri poi dalla finestra.
Ed è con le gambe e con tutti gli strumenti, per la verità, che Giuliano - lì dentro - ci è rientrato. Lui e la sua scalmanata banda di rumorosi ragazzetti, che il resto d’Italia chiama ‘Negramaro’. E’ il Touch Down che i Negramaro hanno scelto per “La prima volta”. Per risuscitare, per far ruggire - chissà - forse per l’ultima volta quei divanetti a righe, quelle piste del leone assiepato e morente, sul ciglio della statale 106.
L’Italia lo ascolta, i Metapontini guardino “La prima volta”. Sarà un po' come sfogliare, per l’ultima (volta), l’album dei ricordi; sarà come passare in rassegna tutte quelle emozioni che, lasciate in sordina, finiscono per sbattertisi in faccia più forti di prima.
Che escono dalla porta e rientrano dalla finestra, appunto.