Sabato, 23 Settembre 2023

La lingua batte. Di cibo, inglese e dialetto.

Una di quelle esperienze da cui nella vita non si prescinde è il matrimonio, che, come da migliore tradizione, capita una volta nella vita. Salvo, poi, complicazioni o “recidivi dell'evento”, quelli che, per intenderci, hanno capito che “two is megl che one” o che semplicemente alla bigamia preferiscono più feste e meno spose tutte insieme. Tornando al matrimonio, una volta sopravvissuti, nell'ordine, a: rito religioso, pianti e colombe, tocca affrontare la prova della sala, specchio della mitomania a volta dei protagonisti principali del giorno, ma anche degli chef.

 

E' in questa occasione, infatti, che si corona un altro sogno d'amore: quello della grammatica con la gastronomia. La lingua italiana veste il palato come la retorica un piatto di maccheroni. Mai come in questa circostanza, gli aggettivi stanno al piatto come un tubino a Naomi Campbell e abbondano come non mai, immemori della recessione. Avrete certo notato quanto la fantasia preceda il piatto e quanto il vostro immaginario dipinga un Van Gogh prima che vi si presenti al cospetto un vile scarabocchio, per rendere l'idea. Le aspettative rimarranno proporzionalmente tanto disilluse quanto l'immaginazione avrà lavorato. Matematico.

I menù maleficamente architettati – si noterà - alternano tripudi, sinfonie, concerti di gamberi della Papuasia che nemmeno Mozart! Ancora: trote giunte a dorso da un lago gelato dell'Asia Minore, astici che ancora stanno cercando la loro posizione nel piatto col gps. Sì perché, chiamare tutto ciò “insalata di mare” sarebbe parso banale. E poi ci sono i geni del male: quelli che le uova strapazzate le chiamano “broken eggs” e tu, compiaciuto, sei disposto a pagarle anche 50 euro (a tuorlo).

Rispetto a tutto ciò, la Basilicata è in controtendenza: il dialetto impregna il piatto come il sugo fa col pane la domenica mattina. E da noi la malvarosa sarà pure un fiore, ma il verbo “sponzare” ha una sua coniugazione autonoma, alla quale i fratelli “associare, impregnare” non rendono minimamente giustizia. Il verbo “sponzare” ha un suo profumo, che richiama - necessariamente - la tavola sinottica del pane, dell'olio e della frittata. Papaleo docet.

Succede così che al fornaio, ad Avigliano, si chieda la “strazzata” e che ai milanesi piaccia o no, non si traduce con il participio passato di “strappare”. E il peperone in Lucania “crusco”, racchiudendo in sè quella giusta onomatopea che al contempo sa di croccantezza e che non si può spiegare se non quale esperienza sensoriale del terzo tipo.

Del resto, c'è chi si accontenta delle San Carlo e chi in busta degusta i peperoni. Punti di vista.

 

Alba Gallo

(Lucania da mangiare)

Read 1697 times Last modified on Giovedì, 07 Luglio 2016 11:35
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