Questa sono io. Anzi, per la precisione ero io tre giorni fa, ma fondamentalmente sono sempre così, perciò preferisco un puro e semplice presente indicativo. Ovviamente sto scegliendo un libro fra tanti in attesa d’adozione. Oh, no, non sono in biblioteca né in libreria. Mi trovo in un supermercato. Ci vado raramente in verità e ogni volta che mi capita non ne esco senza portare almeno un volume in cassa. È d’obbligo, per me, scivolare furtivamente verso questo reparto e toccare golosamente tutto ciò che riposa in pace su questi quattro scaffali abbandonati al disordine e all’indifferenza dei cassieri. Abitudine? Curiosità? Malattia? Forse un po’ tutte e tre. Ad ogni modo, “spulciare” è il verbo che prediligo solitamente per dare un nome al mio vizio innocuo. Letteralmente “togliere le pulci”, in senso figurato “leggere con attenzione, meticolosamente”. Io lo uso appellandomi contemporaneamente ad entrambe le accezioni, soprattutto quando mi trovo in un luogo tutt’altro che consacrato alla buona letteratura.
Nulla sfugge al mio occhio assetato. Consumo la copertina solo con lo sguardo. Titolo, autore, colore, immagine, rilegatura, caratteri, casa editrice, terza e quarta. Poi passo alla dedica – perché un libro non si giudica dalla copertina – e infine passo in rassegna qualche pagina a caso. Basta una parola, un aggettivo sgraziato, un avverbio fuori luogo, a rovinare tutto. Ma se ciò che la pupilla registra solletica i neuroni, il libro ha passato l’esame (a meno che i numeretti in basso, quelli accanto al simbolo € intendo, non superino il mio budget). E questa è l’opzione numero uno, il significato connotativo della mia attività filologica.
Veniamo invece alla denotazione, alle pulci insomma, ché è la parte che preferisco. Spulciare per me è come separare la farina dalla crusca, la parte tenera e buona da quella dura e stopposa (operazione che ha ispirato il nome dell’Accademia della Crusca), dividere ciò che è commestibile e gustoso da ciò che non lo è. Le pulci si annidano ovunque e nonostante il mio profondo rispetto per il mondo animale, bé, le pulci sono sempre pulci. Parassiti. Succhiasangue. E questo genere di bestiola da compagnia francamente preferisco non portarmelo a casa. Quindi, quando scelgo un libro mi assicuro che non sia infestato di questi insulsi insetti affatto simpatici. Per liberarmi dal peso di questa metafora poco animalista, vado subito al sodo: nella mia libreria non sono ben accetti autori di fama ineccepibile e scarso talento. Tutto fumo e niente arrosto in altri termini. Nomi pomposi di persone che ancora non hanno ben capito quale sia il loro posto nel mondo e quindi si mettono a scrivere (o più probabilmente si limitano a firmare cartacce scritte da terzi). E vendono, vendono, vendono. Scrivono per vendere. E nel vendere se stessi, accipicchia, vendono anche la letteratura. Sanguisughe appunto, loro e i loro editori. O viceversa, tanto cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia. Non cambia la rabbia che mi fanno, ecco.
Quel giorno ho spulciato per circa un quarto d’ora al termine del quale un solo tomo è stato strappato alla sua dimora. Il nome del suo autore l’avevo letto tante e tante volte, eppure non mi aveva mai incuriosito. La verità è che l’ho scelto per salvarlo. Era stato maltrattato, il mio esemplare solitario, quasi sembrava rubato ad un mercatino dell’usato. Pagine piegate, orecchiette sulla copertina, uno storpio. Una copia sfortunata, invisibile nella sua deformità, malgrado le sue seicento e passa pagine. L’ho preso perché nessun altro lo avrebbe fatto.
Fiera del mio atto di carità, ho iniziato fiduciosa a leggere “Il gioco dell’angelo”, convinta che mi avrebbe ripagata del mio buon gesto. E invece dopo tre giorni insieme ho capito che tra noi non poteva funzionare, che la nostra amicizia si era spezzata irreversibilmente intorno alla settantesima pagina. Un bambino di dieci anni probabilmente conosce più aggettivi. Un ubriaco riuscirebbe a raccontare una storia anche più complicata in maniera meno caotica. Un serial killer avrebbe lasciato in vita più personaggi. Tutto questo dispiego di forze magiche e sovrannaturali cozza clamorosamente col realismo estremo che incornicia la Barcellona di David Martin. Un fiasco.
Ma David Martin non ha nessuna colpa. Lui… lui mi piace e quasi ne arrossisco. È affascinante e indubbiamente è mezzo matto. È uno scrittore in erba e Zafòn solo sa cosa ha combinato pur di conquistarsi il suo pezzo di Parnaso. Mi assomiglia se ci penso, assomiglia a tutti quelli che rincorrono il sogno di scrivere.
Epilogo
Per scrivere questo articolo ho impiegato tre giorni. Sono tanti e sono stati lunghi. Non ho scritto ininterrottamente o per nottate intere, come faceva David, né, del resto, ho stretto un patto col diavolo. Se ci ho messo tanto è perché ho trascorso la maggior parte del tempo a leggere. A leggere Zafòn, per dargli un’altra possibilità. O forse solo perché mi mancava Martin, o magari quel suo terribile segreto che non sono riuscita a comprendere fino in fondo. Ho appena finito “L’ombra del vento” e ora mi rimprovero di nuovo. Un libro non si giudica dalla copertina. A volte non si giudica neanche da quello che c’è dentro, bensì da tutto quello che gli sta intorno. In questo caso una trilogia – il Cimitero dei Libri Dimenticati - che ho avuto la sfortuna di iniziare dal punto sbagliato. “Il gioco dell’angelo” resterà comunque un brutto libro per me, ma grazie a “Il prigioniero del cielo”, il secondo della saga, ha acquisito un senso, e nell’incipit de “L’ombra del vento”, ho ritrovato me stessa, quando il piccolo Daniel Sempere sceglie il suo primo libro: “[…]in quell’istante ebbi la certezza di aver trovato il libro che avrei adottato, o meglio, il libro che avrebbe adottato me. Sporgeva timidamente da un ripiano[…]. Non conoscevo né il titolo né l’autore, ma non mi importava. Era una decisione irrevocabile, da entrambe le parti. Presi il libro e lo sfogliai con cautela: le sue pagine palpitarono come le ali di una farfalla a cui viene restituita la libertà, sprigionando una nuvola di polvere dorata. Soddisfatto della mia scelta, tornai sui miei passi ripercorrendo il labirinto con il volume sottobraccio e un sorriso sulle labbra. […] ebbi la sicurezza che quel libro mi aveva atteso per anni…”. Mi aveva attesa perché sapeva che alla fine non avrei resistito al fascino arcano del Cimitero dei Libri Dimenticati e che avrei continuato a cercarlo ovunque. Magari solo per riporvi “Il gioco dell’angelo”. [Sara Calculli]