Agosto 1935. Un’automobile, una delle poche in circolazione, attraversa il bosco di Accettura lasciandosi alle spalle il bianco e desolato colle di Grassano. Dei tre uomini a bordo uno è ammanettato e per tutto il tragitto non fa che guardare fuori dal finestrino e volare con la fantasia. È pomeriggio e il sole splende, ma tutta la sua luce non ha potere contro “l’oscura virtù di questa terra spoglia”.
Il viaggio s’interrompe dove la strada finisce, a Gagliano, il paese sul fondo di un burrone dove il prigioniero sconterà la sua pena. Intellettuale antifascista, è stato punito dal regime con il confino in Lucania, in quelle remote contrade dove manco Cristo era mai giunto. Non c’è civiltà né Stato, non c’è presente e neppure futuro, non c’è scienza e neanche storia. C’è solo la malaria crudele che succhia la vita persino ai bambini, c’è il sudore della fronte dei contadini e l’ozio sprezzante dei “galantuomini”, c’è una terra brulla e indomabile che pure bisogna amare. E c’è tanta superstizione, mascherata da saggezza popolare, la pseudo-ragione pagana di chi non è “cristiano”, non è uomo.
Negli anni ’30 così la Basilicata appariva a Carlo Levi: miseranda ed arcana, sconfitta e disincantata, “cafona” e medievale. Il torinese “esiliato” è sconvolto da quell’animalesca e inavvicinabile alterità, eppure imparerà a conoscere ed amare quella parte d’Italia “senza peccato e senza redenzione”, a guardarla, nel suo presente e nel suo passato, con occhi più consapevoli. L’amarezza si fa compassione e la compassione diventa compartecipazione. Al punto che egli analizza la questione meridionale come fosse un suo problema intimo e s’impegna in prima persona per migliorare la situazione: fa il medico, avanza proposte alla prefettura di Matera per arginare l’epidemia malarica, tenta di abbattere i rigidi confini dell’indifferenza e dell’abbandono. La sua pietas va dunque al di là della pura e semplice umanità terenziana ed in “Cristo si è fermato ad Eboli” traccia, con una nostalgia viva e tangibile, un ritratto commosso della sua seconda patria, quella che l’ha accolto senza domandargli di che partito fosse, ma solo se avesse pranzato bene.
“Cristo si è fermato ad Eboli” è uno dei libri che mi ha guidata nella scelta delle tappe del mio reportage: ho inseguito gli spiriti e le streghe che popolano le sue pagine, ho cercato i tesori e le storie dei briganti nei boschi di cui son custodi i monachicchi, ho viaggiato nel tempo per conoscere donne eccezionali ingiuriate dai costumi del tempo, carbonai, lavandaie e suonatori di cupa cupa. Ed ora che settembre mi costringe a fermarmi, posso solo leggere e continuare vagabondare su quel “vascello veloce per portarci in terre lontane” che è la letteratura nelle parole di Emily Dickinson.
Così ho finalmente visto, grazie al memoriale/libro-inchiesta, le bianche e grottesche maschere contadine di Aliano fare irruzione nella notte di Carnevale e turbare la piazza con grida disumane e bastoni impietosi. Ho conosciuto il vecchio banditore comunale e guardiano del cimitero, un tempo incantatore di lupi che domava ogni forza ed elemento della natura. Ho incontrato la figlia di una mucca e ho scoperto che non devo aprire la porta prima del terzo “toc toc” ad un sonnambulo licantropo. Ho giocato alla “passatella” con i contadini di Grassano e so che non esiste locanda migliore dell’osteria di Prisco nel raggio di chilometri. Ho parlato con quel tale che, avendo sognato un monachicchio, aveva trovato un tesoro che si era poi trasformato in carboni perché lo sprovveduto aveva condiviso con altri il segreto. Ho osservato gli amuleti e gli “abracadabra” appesi al collo dei malati ed ho imparato le formule magiche ed i rituali per curare “il male dell’arco” e i vermi dei bambini. Ho partecipato ad uno straziante lamento funebre di oltre quarantotto ore, ululando e strappandomi i capelli assieme alla vedova del defunto. Ho festeggiato la Madonna di Viggiano e le ho donato una collana di fichi secchi…
Poi Levi ha avuto il suo foglio di via. Era il 1936 e in quel giorno di maggio Addis Abeba perdeva la sua libertà, mentre i confinati di Gagliano la riottenevano. È pagina 172 della mia vecchia edizione del “Cristo” ed io mi sento come gli africani conquistati. Ho perso il mio treno, il mio vascello. Ma andrò ad Aliano, sperando che il mio prima o poi non si perda in quell’indefinito “crai”, che è altro non è se non il nome di un domani che mai verrà. [Sara Calculli]