Venerdì, 31 Marzo 2023

3/5 Reportage a tappe. Una settimana da Lucani: seconda tappa Colobraro

Colobraro, 16 Agosto 2013 - Finalmente ci siamo decisi: risaliamo il “torbido Siri” e andiamo a Colob… Colobra… Vabbè, forse se lo scrivo senza pronunciarlo ad alta voce non mi accadrà nulla. Siamo diretti a Colobraro. 3…2…1… Il lampadario è ancora al suo posto e non accenna a muoversi, dunque posso continuare. Naturalmente ad attrarci è la promessa di “Sogno di una notte…a quel paese”, spettacolo teatrale itinerante giunto ormai alla sua terza edizione.

È venerdì, per fortuna 16 e non 17, e a cautela abbiamo aggiunto un elemento alla nostra compagnia, un’amica che rinomatamente funziona da parafulmine: se c’è iella intorno sicuramente si abbatterà su di lei. Del resto altri membri della truppa hanno preferito la festa patronale di Pisticci e con tutto quello che si racconta su “quel paese” non posso biasimarli. Non sono superstiziosa, bensì crociana: non è vero, ma ci credo. Perciò con una scusa dell’ultima ora ho anticipato la partenza, perché, insomma, non si sa mai, prevenire è meglio che curare e tra l’altro soffro di mal d’auto. Mi basta pensare a quelle curve per ricominciare a sudare freddo. Ad ogni modo, alle 19,30 siamo pronti per partire. Tra una chiacchiera e l’altra il tempo vola.

Ci stiamo avvicinando, il paese che non si può nominare ci osserva con un ghigno inquietante dall’alto dei suoi 666 metri d’altitudine. Mentre passa “Enter Sandman”, Virgin Radio subisce impotente l’influsso malefico di queste strade dimenticate da tutti, fuorché dalla sfiga. Le frequenze scalpitano e rimbalzano dal 90.90 al 106.66. La numerologia non mente mai. Sandman salta e la voce di Hetfield stride, geme e mai al mio orecchio fu più Metallica. Non mi resta che porre fine alle sofferenze della radio e toccare ferro.

Curva dopo curva (credo di aver assunto tutte le tonalità di verde conosciute) siamo infine giunti a destinazione. Purtroppo per me e per il mio eroico stomaco prima di metter piede sulla terraferma c’è da affrontare un’ulteriore impresa: trovare parcheggio. Abbiamo oltrepassato da pochi metri il cartello che annuncia l’ingresso in paese e già le anguste vie si sono trasformate in un enorme anaconda di macchine di ogni modello e colore. Non ci perdiamo d’animo e dopo qualche altro minuto (per me interminabile) di montagne russe entriamo anche noi a far parte dell’immenso serpentone. Il resto è una preziosa boccata d’aria fresca e un meritato sospiro di sollievo. La salita modello tetto spiovente è una barzelletta per chi come noi qualche giorno fa ha sfidato le impervie pendenze valsinnesi. Perciò pochi istanti dopo siamo nel pieno della festa e ci lasciamo volentieri travolgere dall’atmosfera da sogno di questa serata di mezza estate.

Esploriamo la via principale trasportati dagli odori della buona cucina locale come incantati da un flauto magico. Voci e tamburi ci risvegliano dal sortilegio e per istinto seguiamo il tragitto segnato dalle bancarelle. All’improvviso la corrente umana s’arresta e noi ci scopriamo soli davanti ad un bivio. Accanto a noi tre signore stanno acquistando degli amuleti e noi le imitiamo senza lasciarci pregare dalla venditrice. Ora, munita di tre chicchi di grano per favorire la fertilità, qualche fiore di lavanda per garantire amore, bellezza e virtù, tre aghi di rosmarino per scacciare gli spiriti e tre pietre di sale grosso per contrastare il malocchio, mi sento più tranquilla e sono decisa a tuffarmi nel passato travagliato di questo spicchio di Lucania.

Ad accompagnarci verso le mostre allestite per l’occasione è il sindaco Andrea Bernardo, che rievoca per noi alcune delle più famigerate leggende che sin dagli anni ’40 circolano sulle bocche dei creduloni. L’innominabilità  del paese avrebbe origine dal ben noto episodio della caduta del lampadario in seguito alla profezia-anatema di don Virgilio, all’epoca potestà della zona, ma ad alimentare le fantasie dei superstiziosi concorre molto altro materiale, immortalato nelle foto di Franco Pinna e negli scritti dell’antropologo Ernesto De Martino e dei suoi collaboratori. Nel libro «Jella e anti jella» Giuseppe Cosco narra che quando il celebre studioso giunse a Colobraro per documentare il folklore del luogo “chiese al primo cittadino di fargli incontrare uno zampognaro, perché voleva farlo riprendere con la cinepresa […], ma il povero zampognaro fu investito da un camion e rimase ucciso”. Forse un segno del destino, forse ciò che accade qui, qui deve restare. E Cosco continua: “Un assistente del De Martino si procurò varie ammaccature scivolando dalle scale dell’albergo, un giornalista del gruppo restò molto turbato quando si accesero spontaneamente i fiammiferi che aveva nella tasca della giacca e uno dei fotografi si ritrovò all’improvviso un febbrone da cavallo. Tutti i componenti la comitiva riportarono incidenti più o meno gravi…”. E come se non bastasse, lo stesso sarebbe accaduto anche alla troupe del fotografo Pinna che tra il ’52 e il ’59 si recò a più riprese a Colobraro per raccogliere le tracce della magia contadina ancora viva nel Meridione italiano. Proprio a Pinna è dedicato il primo piano della mostra. Protagonista dei suoi scatti è una maciara, ovvero una maga locale, la “Cattr”, alias Maddalena La Rocca, una vedova perennemente vestita a lutto e arsa dal sole dei campi. Come lei anche altre donne del posto erano avvezze alle arti magiche. Il menestrello dello spettacolo “Il borgo racconta” cui abbiamo assistito due giorni fa ci diceva appunto che Valsinni sarebbe il paese dei maghi e Colobraro quello delle maghe (o meglio delle streghe, dato che la magia in mano alle donne, soprattutto se vedove o –peggio – non sposate, è da sempre considerata una forza oscura e incontrollabile). Mentre Valsinni vantava dunque la presenza di guaritori dediti alla magia bianca, questa era la terra dei sortilegi e del potere femminile che, in quanto sfuggente alle severe leggi del patriarcato, è sovversivo e nefasto.

Potrei continuare a criticare quest’eredità sessista che la tradizione ci ha tatuato sulla pelle, ma rischierei di cadere anch’io nella trappola che il pensiero binario ogni giorno ci tende. Dunque è meglio continuare a godermi questa ricca mostra. Diverse stanze sono dedicate alla civiltà contadina e all’artigianato. Le pareti sono tappezzate di vecchi arnesi arrugginiti e un angolo ospita gli attrezzi da bottega. Particolarmente interessanti sono la ricostruzione di un’antica dimora e di un’aula scolastica (molto simile a quelle moderne in verità, fatta eccezione per il banco), ma la mia attenzione è tutta per una vecchia macchina da scrivere, una Everest, e su di essa il mio sguardo resta fisso e soddisfatto, fino a quando una voce ci richiama all’ordine: sono già le 21.00 e lo spettacolo sta per iniziare.

Risalendo verso il castello ci accorgiamo di essere veramente tanti. Il paese sembra restringersi attorno a noi, le pareti degli edifici circostanti schiacciarci senza pietà. Ci muoviamo sincronicamente, come pezzi di un unico corpo, attratti da un altoparlante che introduce la leggenda del “monachicchio”, spiritello dispettoso che ama la compagnia dei bambini e rifugge gli adulti che, avidi di tesori e ricchezze, tentano di rubargli il cappello per barattarlo con oro e denaro. Il resto ce lo racconteranno i primi tre personaggi dello spettacolo, due ragazzini del posto accompagnati dalla sorella maggiore, che ci invitano a far rumore con pentole, campanacci o semplicemente battendo le mani ogni volta che il “monachicchio” viene nominato. È una precauzione necessaria, ci avvertono, in quanto pare che il paese sia vittima dei suoi tiri mancini. La storia del piccolo demonio lo identifica nel figlio nato da un amore clandestino tra Caterinella Frezza e il garzone Stefano Mariconda. Dato alla luce in convento, dove Caterinella si era rifugiata dopo l’assassinio del suo amante, era un bambino deforme e di salute cagionevole, destinato a perdere la vita prima di ricevere il battesimo. Simili ai folletti, i monachicchi sono allegri e saggi, custodi di grandi tesori, si aggirano per lo più nei pressi di castelli e abbazie e si divertono a fare scherzi agli adulti. Il cappello rosso che portano sul capo è molto prezioso per loro: chi riesce a sottrarglielo può chiedere qualunque cosa in cambio. Il punto è che non facile rubarlo e del resto non è detto che il bricconcello adempia alle sue promesse. E anche noi, stasera, potremo vedere con i nostri occhi cosa accade quando un monachicchio infesta un piccolo borgo. Inoltre vedremo come zia Fortunata cerca di togliere il malocchio ad un “affascinato” e tanto altro, ai piedi del castello incontreremo persino Giordano Bruno. Ma ora devo tacere, perché temo che scendere troppo nei particolari potrebbe attirarmi le antipatie di un monachicchio (battete le mani). Non è stata forse questa la causa degli strani incidenti subiti dalle troupe di De Martino e Pinna? Chi altri se non l’astuto demonietto avrebbe potuto spaventarli tanto?

In verità, la storia del monachicchio mi ha fatto venire in mente una stramba quanto terrificante creaturina che compare per la prima volta in “Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban”, il Molliccio: si tratta di un essere spregevole che si nasconde nei posti più improbabili per poi spaventare i malcapitati che incontra assumendo le sembianze di ciò che essi temono maggiormente. Come spiega il Professor Lupin, esiste una semplice formula magica per sconfiggere i Mollicci, una sola parolina facile da ricordare. Ma agitare la bacchetta e pronunciare con convinzione “Riddikulus!” non è sufficiente. Ciò che davvero è necessario per annientare quel piccolo mutaforma – incarnazione delle nostre paure più recondite – è la risata. Ridere è il segreto per allontanare il “malocchio” e scongiurare ogni male. E forse è questa la vera magia di “Sogno di una notte…a quel paese”: non è che un collage di scene di vita quotidiana di un borgo qualunque, ma assistere a questa esilarante rappresentazione significa prender parte ad un rito collettivo più efficace dell’affascino della più potente fattucchiera. [Sara Calculli]

continua…

 

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