Venerdì, 31 Marzo 2023

2/5 Reportage a tappe. Una settimana da Lucani: prima tappa Valsinni

Valsinni, 14 Agosto 2013 - A Valsinni sono stata tante volte, ma oggi è diverso. Siamo appena partiti, mentre il sole cala al di là dell’orizzonte, e in poco più di venti minuti saremo già ai piedi del castello. La Sinnica non è cambiata, ogni cespuglio è ancora al suo posto, e la terra, scura e arida, come sempre si lascia accarezzare dalle dolci sfumature del tramonto. Eppure questa sera mi sembra di avvertire qualcosa di insolito. Non è un odore, non il vento caldo e neanche un colore.

È una sensazione. Abbiamo oltrepassato il bivio per Tursi e la sento crescere dentro di me ad ogni battito del cuore. Sì, sono emozionata perché so che lo spettacolo “Il borgo racconta” non mi deluderà, ma c’è dell’altro. È come se non fossimo soli. Sono silenziosa, mi fa notare il mio compagno di viaggio, mi limito a canticchiare Max Gazzè guardando le piccole chiazze verdi ai piedi dei Calanchi. Forse questa presenza è semplicemente nella mia testa, ma è per lei che sento di dover recitare a memoria le rime di Gazzè, per placare la sua ardente solitudine.

Stiamo percorrendo l’antico corso del Sinni, ed ecco, non ho più dubbi: è lei, Isabella Morra, che chiede di essere ascoltata, richiamata ad un presente in cui probabilmente la sua sorte sarebbe stata migliore. Mi sembra quasi di vederla, con la sua veste ambrata e il viso delicato, mentre cerca rifugio nella “ricca e fortunata riva”, volgendo lo sguardo verso Bollita. Dicono che sia qui il suo fantasma, che solo tra le acque cui ha affidato le sue lacrime e le sue preghiere possa trovar pace. E chissà se Isabella sapeva che il “torbido Siri” portava il nome d’una donna, una mitica regina troiana che mille anni prima, all’epoca della fiorente civiltà magno greca, aveva fondato una città di “proverbiale ricchezza” secondo Strabone. E cosa ne restava nel suo Millecinquecento? Un “borgo selvaggio”, confinato ai margini del Regno di Napoli, un vicolo cieco, un punto morto in quel Meridione sconvolto da “tre flagelli di Dio: guerra, peste e fame”. L’isolamento geografico e culturale delle “vili et orride contrade” non era nulla in confronto all’esclusione e all’abbandono patiti da Isabella. Rinchiusa nel castello di Favale, privata dell’affetto dell’amato padre fuggito a Parigi dopo la sconfitta di Francesco I da parte di Carlo V, poteva solo cercare conforto nella natura e nella letteratura. E proprio l’innata passione per la poesia, un’arte, una libertà che alle donne non era concesso esercitare, l’ha spinta sotto le lame dei suoi carnefici: scoperta la corrispondenza epistolare tra Isabella ed il signore di Bollita, lo spagnolo Diego Sandoval De Castro, i tre fratelli Decio, Fabio e Cesare la pugnalarono a morte. Poco importava se i due fossero davvero amanti come le malelingue insinuavano o se semplicemente si scambiassero sonetti, l’onore della nobile famiglia filofrancese doveva essere tutelato. Anche col sangue di una giovane innocente e del pedagogo che le aveva aperto uno spiraglio di vita intellettuale.

Isabella è ai miei occhi un’antenata di Suor Maria, la “capinera” verghiana, come se in trecento anni nulla fosse cambiato per le donne. Maria aveva solo ventuno anni quando prese i voti, ma era stata costretta al convento da quando sua madre era morta. Aveva sette anni e trascorse tutta la vita tra le mura di un chiostro di Catania. Allorché un’epidemia di colera si diffuse in Sicilia, le fu concesso di tornare per l’estate a Monte Ilice dalla sua famiglia. Maria si ricongiunse allora con il padre al quale era tanto affezionata, ma soprattutto godeva della bellezza della natura. Ammirava l’Etna, ascoltava incantata il fruscio delle foglie del castagneto e anche lei aveva il suo Siri, “la striscia lucida e serpeggiante del Simeto”. Anche Maria aveva una Antonia Caracciolo, la sua amica Marianna, e un Diego, il bel vicino Nino del quale si era invaghita. Ma nella sua storia non c’è sangue: Maria è morta sola, di dolore, di follia, di solitudine, forse di paura, nella cella riservata alle monache pazze come la deperita Suor Agata.

Come Maria, Isabella se n’è andata silenziosamente come aveva vissuto, lasciando di sé solo delle righe appassionate. Nessuna voce, neanche quella del padre che reputava tanto illuminato, gridò al femminicidio, nessuna legge punì i suoi carnefici. Diego fuggì e per mesi evitò la furia dei suoi persecutori, ma alla fine anche lui fu giustiziato. Solo allora intervennero gli ufficiali del vicerè e, mentre si perdevano le tracce degli assassini, il nome di Isabella prendeva forma sulle carte del caso: la figlia di un barone era stata il movente del delitto. I suoi scritti, dieci sonetti e tre canzoni, furono conservati quasi per caso, messi agli atti per pura pignoleria. Ironia della sorte, fu l’omicidio di Diego Sandoval De Castro a portare alla luce le rime di Isabella.

Non posso credere che fino a qualche anno fa ignoravo del tutto la bellezza dei versi di Isabella Morra e della sua tragica esistenza. Isabella era solo una tra le numerose donne che la storia ha cancellato, che il canone ha ignorato. Una Giovanna La Pazza, una Marchesa di Cancellara, una Vittoria Colonna, una Olympe de Gouges… Isabella era un’idea cui potevo attribuire tanti, troppi nomi. Non immaginavo neanche lontanamente che un giorno sarei rimasta tanto colpita dal suo “stile amaro, aspro e dolente”, dal suo “mal superbo” e persino dal suo “alto monte”.

È per questo che sono silenziosa, sto ripensando a tutto questo. E proprio mentre immagino Benedetto Croce che scava ai piedi della chiesa di San Fabiano, mi accorgo che la macchina si è fermata e davanti a noi si staglia (a me sembra una montagna da scalare) la salita pietrosa che conduce al castello. Saliamo lentamente, abbiamo bisogno di qualche minuto per prendere il ritmo ed abituarci alla pendenza. Confesso che il mio pensiero è rivolto agli anziani che abitano qui, mi chiedo come facciano tutti i giorni ad affrontare queste scale. Poi mi guardo attorno e la stolta domanda fugge dalla mia mente con la coda tra le zampe: sono circondata da meraviglie, da scorci di eccezionale bellezza. Non c’è tempo, non c’è modo di pensare, si deve solo salire ed aspettare di raggiungere la cima, per gioire di un panorama ancora più stupefacente. Polmoni spalancati e gambe svelte, ci siamo quasi.

E finalmente è pianura. Finalmente la gabella, sormontata dal castello illuminato, appare alla nostra vista. Gli attori sono tutti già pronti con i loro vestiti medievali e gli strumenti del folklore locale, dalle locande già si espande il profumo invitante delle bontà gastronomiche paesane. Piano piano la piccola piazza si riempie e la fila alla gabella si allunga. I diversi accenti che colgo nelle chiacchiere dei presenti rivelano chiaramente la loro provenienza: non solo lucani e pugliesi, ma anche romani e settentrionali. Intanto una vecchia chitarra satura l’aria di note e suoni d’altri tempi. “Altolà, messeri”, annuncia lo strillone, ancora pochi minuti per “munirsi di tagliando alla gabella” e poi sarà 1500. Tutto ciò che appartiene al XXI secolo è bandito. I visitatori del castello tardano a rientrare e per ingannare il tempo Erminio Truncellito, cantastorie protagonista de “Il Borgo racconta”, sfida alcuni spettatori al gioco della morra. Proprio mentre una ragazza gli infligge una sonora sconfitta, messer Franco dalla gabella ci autorizza ad iniziare.

I vicoli stretti sembrano animarsi e rivivere assieme a noi le storie che il menestrello Mimmo Rago ha messo in musica. Le sue melodie e il suo dialetto spedito e disinvolto ci accompagnano per gran parte del viaggio, rendendo ancor più suggestivi i gesti e i racconti di messer Erminio. E mentre i due giullari illustrano in rima la quotidianità dei popolani, fatta di sacrifici e duro lavoro, la bianca Isabella s’affaccia a completare il quadro rileggendo i suoi versi amari. Il popolo da una parte e la nobile poetessa dall’altra, due mondi diversi che s’intrecciano e si sposano sulle rive del fiume Sinni, dove le lavandaie tuttora si recano con le proprie ceste canticchiando. Il carbonaro trascina il suo sacco, nelle stradine si celebra la vita attiva e dinamica di paese, intanto sotto i nostri occhi si consuma la tragedia della giovane baronessa. Il suo canzoniere è simbolicamente lasciato cadere sui ciottoli e dalle pagine aperte sembra levarsi non tanto un grido di disperazione, quanto un sogno di libertà. Per un attimo si ha l’impressione di esser ricaduti nel presente, nell’attualità della cronaca nera e del femminicidio. Isabella scivola via, leggera come un fantasma, e un brivido m’increspa la pelle. Si allontana, ma ogni donna la segue con lo sguardo finché non diventa che un’ombra. Non c’è solo malinconia in quegli occhi persi a contemplare i suoi passi stanchi, non solo l’umana pietà. C’è amore, sorellanza, un bagliore di speranza, un ringraziamento che esplode in un applauso accorato.

E non poteva mancare Benedetto Croce, seduto ai piedi della chiesa di San Fabiano, a rievocare il suo viaggio a Valsinni nel 1928. Non cercava documenti, era spinto dal “desiderio di un più sensibile ravvicinamento ai casi del lontano passato per mezzo delle cose che vi assistettero muti testimoni, e che non sono, o assai poco, cangiate nell’aspetto, e sembrano svegliarne o prometterne la più vivace evocazione”. Desiderio che oggi ognuno di noi può soddisfare grazie all’impegno dei giovani talenti che ogni estate, da ormai ventitré anni, animano il Parco Letterario di Isabella Morra.

Ma la serata non finisce qui. Abbiamo ancora la mostra dell’arte e dell’artigianato locale da visitare e presto i “Menestrelli senza Re”, capeggiati da messer Erminio, riprenderanno a cantare per noi con chitarre e tamburelli durante il “Cenacolo sotto le stelle”. Prendiamo posto a “La Cantina del Buon Gusto” mentre i menestrelli intonano “Il canto delle acquaiole di Valsinni” e la magia del XVI secolo continua a tenerci compagnia per quasi tutta la cena. Tra tarantelle e storie di amori impossibili, tra intermezzi allegri e omaggi ai briganti, la clessidra si svuota e un nuovo giorno s’appresta a venire. È mezzanotte ormai e il terzo millennio, con le sue auto rombanti e il suo silenzio di fuoco, piomba tirannico su di noi. È ora di andar via, ma non senza la promessa di ritornare. Presto e in compagnia.

continua...

Sara Calculli

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