Crescendo, la mia passione per i motori (o meglio per l’interno delle automobili), è maturata ulteriormente. Quando ero ormai abbastanza alta per potermi accomodare direttamente sul sedile, ho iniziato a preferire la Renault 21 di mio padre e ho smesso di addormentarmi tanto facilmente. Anzi, il mio nuovo hobby era contare le stelle e inventarne le forme più strane. Capitava spesso che andassimo a Taranto a trovare gli zii ed io speravo sempre di tornare il più tardi possibile: più era buio il cielo, meglio avrei potuto fantasticare sulle mie personali costellazioni. Fatta eccezione per mio padre che era alla guida, ero l’unica a rimanere sveglia per tutto il tempo, tutta presa a contemplare il tetto del mondo. Perché fosse così bello osservato dal finestrino proprio non saprei dirlo, probabilmente avevo l’impressione di guardarne ogni volta un pezzo diverso.
Poi è stata la volta dei paesaggi. A questo punto ormai potevo sedere anche davanti, al posto del passeggero, e da lì la visuale era perfetta, più ampia finalmente. Vedevo le montagne di fronte e la strada sulla destra e grazie agli specchietti retrovisori riuscivo persino a controllare cosa ci lasciavamo alle spalle. Una posizione d’onore insomma, un po’ come la prima fila del cinema.
E infine ho lentamente iniziato ad apprezzare i viaggi in pullman, anche quelli lunghi. Posto finestrino, naturalmente. In tre anni di Roma-Policoro e viceversa ho imparato a memoria ogni centimetro della tratta, a capire dove mi trovassi semplicemente spostando la tendina e gettando distrattamente lo sguardo all’esterno. Distinguevo le regioni grazie al loro paesaggio caratteristico e piano piano persino alcune città divennero facilmente identificabili a prima vista. Le sei ore di viaggio sembravano così brevi, musica nelle orecchie e occhi aperti. Sempre.
Non è difficile comprendere che adoro l’on-the-road. Non m’importa dove si va né il perché, a volte non mi interessa neanche se alla fine non arriverò alla meta, mi basta esserci mentre ci si va. Sì, sono allieva di Baudelaire, “I veri viaggiatori partono per partire e basta: cuori lievi, simili a palloncini che solo il caso muove eternamente, dicono sempre “Andiamo”, e non sanno perché. I loro desideri hanno le forme delle nuvole”. Un viaggio eterno, puro e disinteressato.
Perciò quest’estate lo faccio: mi prendo una settimana per girovagare un po’. Non vado lontano, anzi preferisco restare in Basilicata, cercare proprio qui, tra le mie radici, delle storie da raccontare. Resto qui perché per troppo tempo sono stata lontana e non mi sono presa la briga di esplorare proprio ciò che è dietro casa mia. Eppure, non c’è posto più magico.
La Lucania è una terra straordinaria e difficile, piccola, serrata tra il tacco e la punta dello Stivale, aspra e tuttavia fertile, ricca, orgogliosa del proprio arcaismo, dei propri riti e delle tradizioni ancestrali. Qui la modernità non ha modo di affermarsi: l’orografia del territorio ne ha bloccato l’avvento. Siamo isolati, lo siamo sempre stati, qui neanche Cristo è mai passato. Solo invasori, conquistatori, padroni che qua sono venuti e vengono a pretendere tesori che non meritano. La Lucania è un teatro di lotte continue e sconfitte subite in silenzio, di vittorie sudate che la Storia tace. È la scacchiera sulla quale si gioca la partita tra l’uomo e le calamità naturali. Nondimeno siamo sopravvissuti. I terremoti e le inondazione hanno distrutto i nostri paesi e noi li abbiamo ricostruiti, abbiamo continuato a credere nella natura, a vivere in simbiosi con la nostra terra crudele, l’abbiamo difesa e tuttora mordiamo chi provi a toccarla. Siamo un popolo che non dimentica, che ancora ha nelle vene il sangue dei Greci, dei Romani, dei Normanni e dei briganti. La nostra è una terra di utopia e poesia, dove la magia si nasconde nei panorami mozzafiato, nelle parole, nei canti e persino in sciocche superstizioni. Ed è questo ciò che cerco: un patrimonio di emozioni.
Sono pronta, cartina alla mano ed un buon compagno di viaggio. L’itinerario si traccerà da sé, lungo le vie della memoria, tra quei castelli che custodiscono forzieri di ricordi, tra la gente che ha qualcosa da raccontare. Conosco già la prima tappa, è la mia vocazione ad indicarmela chiaramente: comincio dalle “orride contrade” dall’antica Favale, balzo nel passato, torno ai tempi oscuri e tristi della poetessa Isabella Morra.
continua…
Sara Calculli